L’allacciamento abusivo alla pubblica fontana non integra il reato di furto

Le acque pubbliche a cui si riferisce l’art.17 del R.D. 1755 del 1933 sono quelle sotterranee e superficiali a cui gli enti pubblici abilitati non abbiano ancora conferito una destinazione particolare. L’impossessamento abusivo di tali acque integra esclusivamente l’illecito amministrativo di cui all’art.23 D.Lgs. 152/99 e non anche il delitto di furto, poichè tali beni appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico.

Per quanto riguarda, invece, le acque già convogliate nell’acquedotto comunale, occorre distinguere le ipotesi in cui l’impossessamento si realizzi mediante un vero e proprio allaccio abusivo (ossia, mediante la costituzione di un’utenza), con il conseguente mutamento della destinazione impressa al bene dall’ente gestore, da quelle in cui il bene sia già stato destinato da tale ente alla pubblica fruizione, ma il privato cittadino ne usufruisca in violazione delle modalità stabilite. Nel primo caso si tratta di acque separate dall’insieme e costituenti un bene autonomo su cui l’ente esercita una signoria propria.

Nella seconda ipotesi, se è vero che l’acqua già convogliata nell’acquedotto comunale non può definirsi pubblica, la sua natura pubblica può derivare dalla sua destinazione, impressa dall’ente gestore, a una regolata fruizione pubblica. In questo caso la condotta del soggetto agente si sostanzia nell’impossessamento di acque destinate alla pubblica fruizione in misura eccessiva e con modalità diverse da quelle stabilite dall’ente gestore (senza che ciò comporti un mutamento della destinazione impressa al bene e la realizzazione di una vera e propria utenza abusiva), e può integrare gli estremi dell’illecito amministrativo e non quelli del delitto di furto.

In tal senso si è espressa da ultimo la Corte di Cassazione penale, 20 Luglio 2018, n. 34455. Est. Grazia Miccoli.

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