LA RESPONSABILITA’ DELLO STATO NAZIONALE PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA CONSUMATA ATTRAVERSO UN ATTO LEGISLATIVO O UNA SENTENZA DEFINITIVA

LA RESPONSABILITA’ DELLO STATO NAZIONALE PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA CONSUMATA ATTRAVERSO UN ATTO LEGISLATIVO O UNA SENTENZA DEFINITIVA

Le violazioni del diritto dell’Unione europea attraverso un atto legislativo o una sentenza definitiva comportano la responsabilità dello Stato autore di detta violazione, in virtù dell’idoneità del diritto medesimo a spiegare effetti diretti all’interno degli Stati membri.

Sono fatti salvi i cd controlimiti alla primazia del diritto eurounitario, come riconosciuto dal TUE all’art.4, comma 2, ossia i principi supremi della Costituzione,  quali ad esempio l’eguaglianza, la democraticità, l’indivisibilità della Repubblica.

In primo luogo, appare opportuno delimitare i contorni del diritto dell’Unione europeo e la sua posizione nella scala assiologica. Esso comprende i trattati istitutivi  in posizione di vertice, che insieme alla Carta di Nizza costituiscono il diritto dell’Unione europea primario. Infatti, l’art. 263 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea prevede che la violazione dei trattati sia un motivo di impugnazione degli atti delle istituzioni europee, quindi questi sono ai primi subordinate. A seguito del Trattato di Lisbona del 2009 il Trattato sull’Unione e quello sul Funzionamento hanno lo stesso valore giuridico ma si differenziano per la disciplina contenuta. Il TFUE prevede disposizioni applicative del TUE, il quale ha natura costitutiva e organizzativa.

Quanto agli effetti, sinteticamente si può affermare che i trattati possono produrne direttamente negli ordinamenti statali, in senso verticale con il riconoscimento in capo a persone fisiche e giuridiche di situazioni giuridiche attive azionabili nei confronti degli Stati membri. E anche in senso orizzontale, ossia nei rapporti tra privati in riferimento alle sole previsioni di carattere assoluto e incondizionato, quindi immediatamente precettivo.

Nell’alveo del diritto primario rientra anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza nel 2000, e in versione adattata a Strasburgo nel 2007. Essa ha lo stesso valore giuridico dei trattati ai sensi dell’art. 6 TUE.

I trattati, dunque, costituiscono la base giuridica dei cd diritto derivato, ossia degli atti che gli organi europei emanano per attuare le previsioni del diritto primario.

Volgendo un rapido sguardo alle diverse tipologie di atti normativi comunitari, i regolamenti ex art. 288 TFUE sono immediatamente applicabili e hanno portata generale; sono indirizzati a tutti i soggetti giuridici e obbligatori in ogni loro elemento.

Al pari dei regolamenti, anche le decisioni sono obbligatorie in ogni loro parte per i destinatari designati. Non richiedono una normativa di applicazione nazionale  e possono essere indirizzate a tutti gli Stati membri, a imprese o a singoli individui. Si distinguono dai regolamenti per la portata individuale, vanno notificate ai destinatari, a pena della loro inopponibilità; non vengono pubblicate in Gazzetta Ufficiale e producono senz’altro effetti verticali se impongono obblighi incondizionati e sufficientemente chiari e precisi.

Altra tipologia particolarmente rilevante è la direttiva, rivolta agli Stati, li vincola per quanto attiene il risultato da raggiungere, ma salva la competenza dei destinatari in merito alla forma e ai mezzi. Ha formalmente come unici destinatari gli Stati membri appunto destinatari della stessa, non  avendo carattere generale. In ossequio al principio di leale collaborazione ex art.4 TUE, entro il termine di attuazione della direttiva, gli Stati membri non possono adottare misure incompatibili con gli obiettivi della stessa. In base al principio di proporzionalità non possono utilizzare strumenti eccessivamente restrittivi in relazione allo scopo da perseguire, ma solo sufficientemente efficaci e adeguati.

In linea di principio, quindi, non sono direttamente applicabili. Ove tuttavia la direttiva imponga un obbligo di non fare, ossia un obbligo di stand still, questo opererà automaticamente. Non possono considerarsi auto-esecutive le direttive che introducano un nuovo istituto, come chiarito dalla giurisprudenza ; occorrerà necessariamente che questo venga recepito e disciplinato dal legislatore interno.

È esclusa, invece, la possibilità che le direttive producano effetti diretti orizzontali, ossia tra privati. Allo scopo di mitigare le conseguenze negative correlate alla distinzione tra effetti verticali e orizzontali, e in forza del principio di supremazia del diritto unionale, come verrà illustrato a breve, si impone l’obbligo per il giudice nazionale di interpretare la normativa interna, precedente o successiva all’adozione della direttiva, in modo conforme al contenuto precettivo di quest’ultima.

Infine, le raccomandazioni e i pareri sono definiti atti non vincolanti. I primi sono rivolti a un’istituzione o ad altro soggetto che li richieda e illustrano il punto di vista dell’organo emanante, consigliando e orientando l’interlocutore.

Le raccomandazioni si pongono come un invito a tenere un preciso comportamento senza porre alcun obbligo di risultato. Dunque, il giudice nazionale non è tenuto a disapplicare le norme statali eventualmente contrastanti.

Da ultimo occorre citare i principi generali del diritto unionale, i quali fungono da parametro di valutazione  di legittimità degli atti degli organi delle istituzioni, oltre che da criterio di interpretazioni delle norme europee e di integrazione del relativo contenuto. Sono frutto in gran parte dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia europea, sono fonte non scritta dell’Unione europea, e secondo l’opinione dominante si pongono in posizione sovraordinata rispetto agli atti delle istituzioni ma subordinata al TUE.

Infatti, i principi generali non sono esplicitamente menzionati nell’art. 263 TFUE, ma ricondotti nella categoria delle regole di diritto relative all’applicazione del TFUE, il quale ha, dunque, una posizione preminente.

Secondo un differente orientamento, i principi generali, quantomeno quelli definiti fondamentali, sono equiparati alle norme primarie e ai trattati, costituendo la base “costituzionale” degli stessi.

Infatti, i trattati devono essere interpretati alla luce dei principi generali fondamentali, e indubbiamente rappresentano il momento più alto di avvicinamento e integrazioni degli ordinamenti statali.

Per citarne qualcuno, la giurisprudenza ha riconosciuto come principio generale quello di sussidiarietà, di coerenza dell’azione comunitaria e non discriminazione; il principio di proporzionalità, il diritto di proprietà e la libertà di esercizio delle attività professionali.

Oltre al diritto scritto, inteso in senso formale, ai principi generali, il diritto europeo si compone della cd law in action, ossia del diritto giurisprudenziale. Le sentenze della Corte di Giustizia europea hanno lo stesso valore normativo delle norme interpretate; interpretano le norme oggetto delle loro pronunce, le completano, le integrano, creano  precetti. Sono vincolanti per i giudici remittenti e in tutti i casi nei quali va applicato lo stesso principio di diritto. Infatti, i giudici chiamati a statuire sulla medesima causa nei diversi gradi di giudizio dovranno proporre un nuovo rinvio pregiudiziale dinnanzi alla Corte di Giustizia ove intendano sottoporle nuovi elementi non esaminati in precedenza o indurla a un ripensamento.

Hanno, perciò, efficacia ultra omnes, e  danno applicazione uniforme al diritto unionale.

D’altronde si ritiene in ambito europeo che la vera lesione al diritto europeo si abbia proprio   nell’applicare la legge.

Discorso diverso, invece, per le norme ricavabili dalla CEDU: l’adesione alla Convenzione non ha posto limitazioni di sovranità ex art. 11 Cost; conseguentemente i conflitti tra norme convenzionali e nazionali  non vengono risolti mediante il meccanismo della non applicazione della norma interna confliggente, ma sollevando la questione di legittimità, per violazione mediata dell’art.117 Cost., ove sia impossibile la composizione sul piano ermeneutico.

Dunque, la CEDU è una fonte del diritto internazionale, al pari di un trattato multilaterale; in quanto norma pattizia non rientra nell’ambito di operatività dell’art. 10 Cost.. E’ un parametro costituzionale interposto, il che le attribuisce una maggiore resistenza rispetto alle leggi ordinarie successive; dunque, non si pone un problema di successione delle leggi nel tempo nel caso di eventuali contrasti con leggi ordinarie, ma questioni di legittimità costituzionale.

Orbene, la doverosa premessa può essere conclusa componendo la gerarchia assiologia in tal senso: in primis, i principi generali fondamentali, seguiti dal diritto europeo e dalle consuetudini internazionali, sul gradino immediatamente successivo la nostra Carta costituzionale e la Cedu, dotata di valore subcostituzionale.

In caso di contrasto tra diritto europeo e diritto interno sorge, dunque, la responsabilità dello Stato autore della violazione, poiché il primo ha efficacia diretta sia sul piano verticale che orizzontale. Dall’art. 11 Cost e dal principio dell’effetto utile discende che le norme comunitarie hanno effetti vincolanti e attributivi nei confronti di persone fisiche e giuridiche all’interno degli Stati, tra Stato e cittadino, e tra cittadini.

Dall’efficacia diretta del diritto unionale deriva il principio di primazia dello stesso, non previsto espressamente nei trattati, ma da sempre riconosciuto dalla Corte di Giustizia.

In Italia, tuttavia, ha  vissuto un iter non poco travagliato.

Al riguardo, infatti, sono emerse due tesi di fondo: la prima predica l’integrazione dei due ordinamenti, la seconda la separazione non disgiunta dalla coordinazione. Giova precisare che le diverse ricostruzioni portano a esiti pratici non molto dissimili.

La posizione della Corte di Giustizia ha da sempre configurato l’ordinamento europeo come integrato con quello interno, dunque quest’ultimo non potrà prevalere nei confronti del primo. La concezione monista colloca i due ordinamenti in termini gerarchici nel senso che il diritto unionale è fonte immediata di diritti e obblighi per tutti coloro che fanno parte dell’Unione stessa. In forza del principio di supremazia del diritto europeo non solo è inapplicabile qualsiasi disposizione legislativa nazionale contrastante preesistente, ma anche viene impedita la formazione di atti legislativi nazionali incompatibili con norme comunitarie.

Qualsiasi giudice nazionale, inoltre, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto unionale disapplicando le disposizioni interne confliggenti, senza chiederne o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi procedimento costituzionale.

Ben diversa la posizione della Corte costituzionale, peraltro evolutasi negli anni. In una prima fase, sostenne che la violazione del Trattato non togliesse alla legge in contrasto la sua piena efficacia. Saldi il criterio cronologico e il principio di successione delle leggi, non riteneva che la disposizione interna avesse valore sub -valente.

Nella seconda fase la Corte Costituzionale riconobbe il primato del diritto comunitario come direttamente applicabile nell’ambito di competenza nel quale il legislatore italiano aveva scelto di ritirarsi; ciò avendo come base giuridica l’art. 11 Cost.

Non fu ancora riconosciuta la possibilità di disapplicare la norma interna contrastante ma fu piuttosto imposto l’obbligo di sollevare la relativa questione di legittimità. Fu introdotto così un sistema di controllo accentrato, da sempre osteggiato dalla Corte di Giustizia.

Con la terza fase, segnata dalla sentenza Granital degli anni ’80,  il controllo divenne diffuso e fu consentito al giudice italiano di disapplicare direttamente l’eventuale legge ordinaria contrastante con un regolamento comunitario precedente, dopo aver scelto infruttuosamente  tra le possibili interpretazioni quella conforme alle prescrizioni della Comunità.

La Consulta, lungi dal sostenere l’integrazione dei due ordinamenti, si espresse in termini di autonomia, distinzione ancorchè di coordinazione. Mantenne per sé il sindacato sui cd controlimiti alle limitazioni di sovranità ex art. 11 Cost., ovvero il diritto unionale cede rispetto ai principi supremi e ai diritti inviolabili dell’uomo. In caso di contrasto tra questi ultimi e il diritto UE, il giudice nazionale avrebbe dovuto sollevare la questione di legittimità costituzionale in  riferimento alla legge nazionale di ratifica del Trattato istitutivo della Comunità europea che consente l’applicazione di norme contrastanti con i predetti controlimiti.

La quarta fase portò concrete aperture verso il cd. sistema monista, in quanto la Consulta decidendo su un caso specifico, affermò di poter conoscere qualsiasi giudizio instaurato in via principale, anche dalle Regioni nei confronti dello Stato, e che il suo intervento rappresentava il sistema più efficace e rapido per assicurare la primazia del diritto europeo e la sua uniforme applicazione. Inoltre,  riconobbe a se stessa la legittimazione a proporre innanzi alla Corte di Giustizia il rinvio pregiudiziale, definendo l’ordinamento UE autonomo, integrato e coordinato con quello interno, evocando quel rapporto di integrazione già predicato dalla Corte di Giustizia decenni addietro.

Dunque, si è assistito  a un progressivo riconoscimento dell’integrazione da parte del diritto unionale, con riserva dei controlimiti vigilati dalla Consulta, a una permeabilità unilaterale e settoriale che è indice della primazia del diritto europeo sui diritti nazionali.

Come corollario della superiore prevalenza si colloca la responsabilità dello Stato in tutte le sue articolazioni, con conseguente applicazione di sanzioni allo stesso in caso di violazione del diritto eurounitario.

Infatti, a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di recepire una direttiva  UE è ormai riconosciuto al privato il diritto di ottenere il risarcimento per mancata attuazione della direttiva stessa. Si tratta di una forma di tutela che la giurisprudenza europea ha riconosciuto dalla storica e ancora molto attuale sentenza Francovich  resa negli anni ’90, anche in riferimento a direttive non sufficientemente precise e non incondizionate.

Sebbene la direttiva del caso Francovich, favorevole ai ricorrenti,  non potesse essere applicata perché mancante di attuazione da parte dello Stato membro, comunque quest’ultimo sarebbe stato condannato al risarcimento in favore dei singoli lesi dalla violazione del diritto comunitario.

Tra le condizioni individuate dalla citata sentenza affinchè scatti un’ipotesi risarcitoria dello Stato inadempiente nei confronti dei privati, vi è che la direttiva implichi la chiara attribuzione di diritti precisi e non condizionati a favore di singoli; che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base della direttiva stessa e che vi sia un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito.

Sempre in applicazione della primazia unionale, che coinvolge anche l’attività della PA che a essa soggiace in quanto articolazione dello Stato, nel caso in cui una norma interna collida con una norma europea dotata di efficacia diretta si seguirà il metodo della disapplicazione. Già negli anni ’90 la Corte costituzionale affermò che le norme contrarie al diritto comunitario devono essere disapplicate dai giudici e dalla PA.

Se non può interpretarsi in maniera conforme al diritto europeo la norma interna sarà disapplicata, dunque, senza dover sollevare la questione di legittimità costituzionale.

L’insegnamento delle storiche sentenze della Corte di Giustizia Simmenthal e Granital degli anni ’70 e ’80, richiamato dalla nostra Consulta di recente, illustra come il giudice nazionale possa procedere egli stesso all’applicazione della norma comunitaria direttamente efficace in luogo di quella nazionale . Mentre in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta il giudice comune dovrà sollevare la questione di legittimità costituzionale.

Invero, vi è anche un indirizzo interpretativo che sostiene che debba applicarsi il diritto interno seppur confliggente fin quando la norma dell’Unione non sia stata recepita; infatti, fuori dai limiti temporali e dall’ambito materiale in cui vige tale ultima norma , la regola nazionale serba intatto il suo valore e spiega la sua efficacia. Dunque, secondo l’indirizzo che si espone il giudice nazionale è comunque tenuto a effettuare una lettura della disposizione interna quanto più fedele allo spirito della norma europea, salva la responsabilità dello Stato per mancato o non adeguato recepimento.

Per un differente approccio, invece, neppure la non immediata vincolatività consente a una norma interna violativa del diritto UE di operare. Sicchè, tentata una interpretazione conforme, la soluzione del contrasto andrà affidata al giudizio di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., e ciò anche in caso di disposizione interna contrastante con un diritto garantito dalla Carta di Nizza.

Alcune recenti prese di posizione della giurisprudenza italiana sulla responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, però, sembrano  riproporre la menzionata tesi dualistica. Hanno, infatti, affermato che, stante il carattere autonomo e distinto dei due ordinamenti, il legislatore che non ha trasposto nel termine prescritto le  direttive o lo ha fatto tardivamente ha tenuto un comportamento antigiuridico solo nei riguardi dell’ordinamento UE, e non anche in quello interno.

Più precisamente si tratterebbe di un inadempimento di un’obbligazione ex lege  di natura indennitaria e determinativo di un diritto al risarcimento del danno. Tuttavia, si è osservato che così opinando si concluderebbe in maniera più logica per  una antigiuridicità che investe anche l’ordinamento interno, non solo quello europeo.

Ad ogni buon conto, la legge di stabilità del 2012 ha specificato che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori debba seguire le regole dettate dall’art. 2947 cc. Il disposto rinvio implica l’applicazione della prescrizione del risarcimento del danno da fatto illecito, collocando il mancato recepimento di obblighi comunitari nell’alveo della responsabilità aquiliana.

La Cassazione, invece, all’indomani della prefata novella legislativa, ha continuato a ricondurre la responsabilità dello Stato al paradigma della responsabilità da inadempimento. Ha, inoltre, ribadito come il carattere antigiuridico della condotta inadempiente dello Stato sia tale solo nei confronti dell’ordinamento comunitario.

Come anticipato, vi sono dei controlimiti alla predominanza del diritto europeo, ovvero i principi fondamentali della Repubblica, l’unicità dello Stato, la sua laicità e democraticità. Baluardo in funzione nomofilattica è la Corte costituzionale con il suo controllo accentrato e incisivo. Dichiarando illegittime le norme interponenti, elimina la norma nazionale che ha consentito l’ingresso di quella europea in contrasto con i superiori controlimiti. L’art. 4 comma 2 TUE, d’altronde, riconosce e non soffoca l’identità nazionale.

Tuttavia, non vi è unanimità di vedute sulla competenza a decidere sugli stessi controlimiti. La Corte di Giustizia propende per la loro comunitarizzazione, in quanto norme di diritto europeo grazie a una sorta di osmosi e di integrazione reciproca. La Consulta, invece, è incline a un ‘attribuzione a sé della competenza, poichè si tratterebbe di un giudizio nazionale di valore, di natura strettamente politica, lontano dalle attribuzione della Corte europea.

La responsabilità dello Stato è stata riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia non solo nel caso di violazioni del diritto UE derivanti da atti legislativi e da parte della PA, ma anche qualora sia il giudice nazionale nella sua fondamentale attività interpretativa e applicativa della norma a non rispettare il diritto UE.

In particolar modo la responsabilità per “fatto” degli organi giudiziari sorge in conseguenza alla mancata disapplicazione della norma nazionale incompatibile con il diritto UE; per mancato rinvio pregiudiziale da parte di giudici di ultima istanza; per mancata interpretazione conforme del diritto nazionale alle norme UE e ai principi espressi dalla giurisprudenza UE.

La legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati del 1988 è stata ritenuta contraria al diritto europeo nella parte in cui escludeva , nella sua prima versione,  la detta responsabilità per i danni recati ai singoli a seguito di violazioni del diritto EU perpetrate da organi giurisdizionali di ultima istanza, allorquando le predette violazioni derivassero da interpretazione della norma giuridica o da valutazione dei fatti e delle prove. Altra ragione di contrarietà al diritto unionale era costituito dal fatto che la responsabilità in oggetto fosse limitata ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice.

Condannata l’Italia, la menzionata legge fu modificata nel 2015. Nel difficile tentativo di  bilanciare l’indipendenza della magistratura e il principio di responsabilità, si è ricompreso nella categoria della colpa grave il travisamento del fatto e delle prove, e si è inteso punire la  violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione europea da parte del giudice, la mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, par. 3 TFUE e del contrasto con l’interpretazione espressa dalla Corte di Giustizia.

Orbene, venendo alle violazioni perpetrate tramite le sentenze definitive, appare opportuno premettere come il valore del giudicato, scolpito negli artt. 324 cpc e 2909 cc, afferisca alla certezza stessa del diritto. È un principio della stessa Unione europea, tant’è che questa non impone la disapplicazione delle norme nazionali sul giudicato, nemmeno laddove siano in contrasto con il diritto unionale.

Tuttavia, si deve registrare come nel caso Lucchini del 2007, sia stato ritenuto che la norma nazionale ex art.2909 cc fosse incompatibile con il diritto europeo e che quindi andasse disapplicata. Ciò in quanto la controversia verteva su un tema particolarmente delicato in ambito europeo, ovvero quello degli aiuti di Stato illegittimamente erogati.

Il contrasto del giudicato con il diritto unionale potrebbe essere originario o sopravvenuto; ossia derivante dalla collisione di norme e sentenze della Corte di Giustizia preesistenti allo stesso o sopravvenute.

Ebbene, il giudicato civile e a amministrativo è tendenzialmente stabile. Se così non fosse i processi non terminerebbero mai e sarebbe frustrata la legittima aspettativa di una stabile definizione della controversia sorta.

Anche la PA soccombente deve retroattivamente ripristinare lo staus quo ante, a seguito dell’annullamento di un suo provvedimento deciso in sede giudiziale, laddove ciò non incida su tratti discrezionali della sua attività  o su poteri non ancora esercitati. Ove  non fosse realizzabile l’integrale ripristino, sarà condannata ex art. 112 cpa al risarcimento del danno.

Orbene, se tendenzialmente il giudicato amministrativo è impermeabile per non sacrificare il diritto alla ragionevole durata del giudizio, all’effettività della tutela giurisdizionale alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici, il limite alla sua esecuzione  è dato dalle sopravvenienze di fatto e di diritto antecedenti alla notifica della sentenza divenuta irrevocabile.

Dette sopravvenienze, per il tratto che concerne  questa sede, possono essere rappresentate dalle sentenze della Corte di Giustizia, in quanto di carattere normativo come argomentato in precedenza.  Se sanciscono l’incompatibilità con il diritto europeo di un atto legislativo ma anche di natura regolamentare, vincoleranno il giudice che ha sollevato la questione pregiudiziale e spiegheranno i loro effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto

Se le sopravvenienze sono ontologicamente e logicamente irrilevanti per le situazioni giuridiche istantanee, su quelle durevoli, invece, incidono non poco. Nel primo caso il giudicato ha attribuito un bene della vita finale, attraverso la corresponsione di una somma di denaro o l’emanazione di un provvedimento favorevole, previo accertamento della fondatezza della pretesa azionata. La formazione del giudicato stesso è compiuta, istantanea appunto; la sua retroattività incontra i limiti della mutata realtà fattuale e giuridica.

Nel caso in cui, invece, il giudicato abbia attribuito un bene strumentale, per esempio consentendo la riedizione di una gara o ripetendo un procedimento, vi sarà un’attività amministrativa che andrà a completare la statuizione della sentenza. Il giudicato non potrà essere rigido, ma permeabile alle sopravvenienze, l’accertamento avrà coperto i fatti passati, non quelli futuri che torneranno a essere disciplinati da norme attuali in applicazione della disciplina sulla successione delle leggi.

Alla luce di quanto argomentato, il giudicato si presenta relativamente flessibile, del resto non è un controlimite, può essere disapplicato per evitare il consolidarsi di violazioni del diritto europeo.

Si è, dunque, avvertita l’esigenza di prevenire la formazione di un giudicato contrario al diritto europeo e a tutte le norme di rango sovranazionale alle quali l’Italia deve dare applicazione.

Le Sezioni Unite della Cassazione sostengono che rappresenti una sentenza anomala, resa in violazione dei limiti esterni della giurisdizione quella posta in violazione del diritto unionale come risultante da una sentenza della Corte di Giustizia, in quanto il giudice nazionale esercita un potere che non ha. Perciò, si impone la cassazione della prima sentenza, poiché resa sulla base di una interpretazione di una norma interna confliggente anche con il principio in base al quale tutti gli organi dello Stato, nell’ambito delle rispettive competenze, devono conformarsi alla normativa comunitaria.

Ciò rileva anche e soprattutto in sede di ottemperanza, al fine di evitare il consolidamento di una violazione del diritto europeo, sentenze anomale o eccedenti i limiti esterni della giurisdizione. Infatti, le sentenze rese in detta sede sono idonee a diventare cosa giudicata, in quanto integrano e completano le sentenze di cognizione, ne specificano la portata.

Pertanto , anch’esse devono essere  interpretate in maniera conforme al diritto eurounitario.

In quest’ottica si è sostenuto che costituiscono un’opportunità per evitare conseguenze anticomunitarie derivanti dal giudicato più valida della precedente opzione di cassare le sentenze  contrarie al diritto europeo.

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