ANALOGIA E CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA

Nel nostro ordinamento vige il divieto di analogia in materia penale. Esso è ricavabile dal principio di tassatività che, rivolgendosi al legislatore e al giudice, impone il divieto di estendere la disciplina contenuta nelle norme incriminatrici, oltre alle ipotesi espressamente previste.

La “ratio” è da rintracciare nel garantire la libertà del cittadino da arbitri del potere giudiziario e vincolare il legislatore nella formulazione e strutturazione tecnica della fattispecie. Pertanto, è interdetto al giudice penale muovere dalla “ratio” incriminatrice per includere nella previsione legale fatti simili che esplicitamente non vi rientrano.

Al di fuori del contesto penale, invece, è in vigore il principio in base al quale ove sussista la medesima “ratio” si applicherà la stessa disposizione al fine di colmare le eventuali lacune normative.

Per analogia “legis” si intende l’operazione intesa ad assegnare alla previsione normativa un significato più ampio di quello portato dalla lettera della disposizione, in virtù di un rapporto di similitudine tra il caso espressamente contemplato e quello non previsto.

Lo stesso procedimento sorregge l’analogia “iuris”, la quale, però, utilizza quale parametro di somiglianza i principi generali dell’ordinamento.

Il ricorso all’operazione analogica è ammesso in via generale nel nostro ordinamento dall’art. 12, co.II, disposizioni preliminari al codice civile. Tuttavia , l’art. 14 delle dette disposizioni pone il divieto di analogia in materia penale, il cui fondamento costituzionale si rinviene non già nel principio  di riserva di legge, quanto nell’esigenza di tassatività della fattispecie.

Posto che il divieto in oggetto è riconosciuto a livello ordinario dal citato art. 14, si ritiene che sia anche costituzionalizzato indirettamente insieme al principio di tassatività, nell’art. 25 e negli artt. 24, co.II, sulla inviolabilità del diritto alla difesa, e nell’art. 112, sulla obbligatorietà dell’azione penale.

Di recente la Consulta ha puntualizzato che il divieto di analogia rappresenta un canone affermato a livello primario dall’art. 14 predetto e ricavabile anche dall’art. 1 c.p.. La Corte Costituzionale ha, inoltre, affermato che costituisce un limite invalicabile rispetto alle opzioni interpretative, in senso ovviamente garantistico, in quanto è il testo di legge, e non la sua interpretazione giurisprudenziale, a dover offrire un preciso avvertimento ai consociati circa la risposta sanzionatoria alle proprie condotte. Pertanto, il divieto di analogia , al pari del principio di tassatività, vincola prima il legislatore rispetto al giudice . Questi non potrà estendere la portata applicativa delle norme penali oltre i casi sussunti nella fattispecie espressa.

L’interpretazione estensiva, invece, risulta sempre ammessa nel nostro ordinamento, in quanto è un’attività ermeneutica attraverso la quale il giudice attribuisce uno tra i possibili significati della norma compatibili con il suo tenore letterale, e basati sulla stessa ratio, sulle intenzioni del legislatore storico e desumibili dal contesto sistematico nel quale si inserisce la norma stessa.

L’interpretazione estensiva attribuisce, dunque, un significato più ampio a termini o locuzioni, ma sempre all’interno di quelli letterali possibili. Infatti, questi costituiscono limiti invalicabili che l’operazione estensiva non supera, ampliando il campo di applicazione della norma oltre il senso più immediato e apparente che risulta da un semplice esame lessicale della disposizione stessa.

Particolarmente controversa e discussa appare l’operatività dell’analogia in tema di cause di esclusione della colpevolezza o scusanti.

Infatti, queste rappresentano situazioni in presenza delle quali il legislatore esclude la punibilità dell’agente per mancanza di rimproverabilità dello stesso rispetto a un fatto che resta illecito. Al pari delle cause di giustificazione, le scusanti si pongono all’interno della struttura dell’illecito, ma investono il profilo soggettivo. Sicchè, rendono non colpevole un fatto tipico e antigiuridico sul presupposto che in determinate circostanze anomale la persona è esposta a una particolare pressione psichica, che influisce sul processo motivazionale alla base della condotta tipica. L’ordinamento tiene in conto i riflessi psicologici della situazione anormale e ritiene, perciò, di non dover intervenire con la sanzione penale.

L’agente, infatti, condizionato da contingenze anomale è impedito dal conformare il proprio comportamento al precetto penale. Le scusanti si fondano, quindi, sulla inesigibilità di una determinata condotta  in presenza di talune circostanze e si inseriscono nell’ambito della concezione normativa della colpevolezza, precludendo il giudizio di rimproverabilità personale per l’atteggiamento antidoveroso tenuto.

Fondamento teorico della previsione normativa delle cause di esclusione della colpevolezza è, dunque, l’esigibilità del comportamento conforme alla norma penale durante il fisiologico processo motivazionale e decisionale in presenza di circostanze normali. Solo in questo caso il legislatore può legittimamente esigere che l’agente si comporti secondo il precetto.

La dottrina germanica, seguita da alcuni autori italiani, ha sostenuto che tanto il dolo che la colpa sono sempre esclusi allorchè il soggetto si sia trovato in condizioni tali da non potersi umanamente pretendere dal medesimo una condotta diversa da quella tenuta in concreto. Secondo tale impostazione l’inesigibilità costituisce un limite estrinseco alla legge, una causa ultralegale di esclusione della colpevolezza e rinviene il proprio fondamento in norme  che, distinte da quelle scritte o consuetudinarie, fanno parte dell’ordinamento giuridico di una data comunità.

Al principio di inesigibilità e, quindi, di non punibilità sono riconducibili distinte ipotesi disciplinate dalla legge, tra le quali la forza maggiore, il caso fortuito, il costringimento fisico, l’errore.

La “vis maior” opera come una violenza sulla persona, irresistibile se pur prevedibile, può essere un evento della natura o dell’uomo. Si distingue dal caso fortuito che rappresenta l’evento penalmente rilevante imprevedibilmente connesso alla condotta dell’agente, dunque rappresenta un “quid” imponderabile che si inserisce all’improvviso nell’azione.

L’art. 46 c.p. descrive il costringimento fisico e dispone la non punibilità per il soggetto che commette il fatto di reato costretto da altri, quale mero strumento nelle mani di un soggetto che ha cancellato con la violenza fisica il potere agire dell’agente.

Ben diverso è il costringimento psichico nel quale il soggetto agisce volontariamente, ma in base a un processo motivazionale alterato, che secondo quanto dispone l’art. 54, co III, c.p. assume i canoni dello stato di necessità.

Infine, tra le scusanti destinate a elidere l’elemento soggettivo rispetto a un fatto oggettivamente illecito e non scriminato, un ruolo di rilievo assume l’errore, inteso quale falsa rappresentazione soggettiva della realtà naturalistica o di diritto. In particolare, agendo sul presupposto di una situazione di fatto o di diritto, che appare diversa, dunque, non corrispondente a quella reale, il soggetto non acquisisce né la consapevolezza del disvalore penale del fatto  né la volontà colpevole. Il che esclude il dolo.

Tuttavia,  in funzione di “valvola che permette al sistema di norme di respirare in termini umani”, alcuni autori reputano legittimo il ricorso a ipotesi non tipizzate alle quali è sottesa la “eadem ratio” di quelle sopraesposte. L’inesigibilità avrebbe, dunque, il compito di consentire l’ingresso di cause di esclusione della colpevolezza non codificate attraverso lo strumento dell’analogia “iuris” in tutti i casi in cui la punizione appaia ingiustificata alla stregua dei principi generali dell’ordinamento giuridico.

L’esposta ricostruzione si espone a diversi rilievi critici. Infatti, difetta di un minimo di fondamento normativo, non è in grado di definire un parametro unitario adeguato grazie al quale soppesare l’inesigibilità delle condotte, né motiva perché non si sarebbe potuto agire diversamente. Non  spiega, infine, quale sarebbe il canone comportamentale da adoperare per calibrare la condotta esigibile, se quello dell’agente medio o dell’homo eisudem condicionis et professionis.

Sicchè, la tesi prevalente sostiene che gli istituti che danno rilievo alla fragilità umana per escludere la risposta punitiva dell’ordinamento siano da considerare ipotesi eccezionali, come tali non estensibili. È stato, inoltre, osservato che l’inesigibilità in sé rischia di diventare una clausola vuota, in quanto carente dei motivi per i quali l’agente non avrebbe potuto comportarsi diversamente nel caso concreto.

Pertanto, si esclude il ricorso sia all’analogia iuris che all’analogia legis in relazione alle singole scusanti. La dottrina maggioritaria osserva che, quando il legislatore ha individuato una causa di esclusione della colpevolezza, ha operato una scelta precisa quanto al tipo di situazione da riconoscere, al grado di influenza psicologica necessario per rendere inesigibile un comportamento diverso, ai soggetti e alle categorie di reati interessati. Da tale precisa opzione se ne ricava che, quand’anche fosse emersa una lacuna legislativa, questa sarebbe intenzionale e, dunque, sarebbe precluso all’interprete il suo riempimento tramite lo strumento dell’analogia.

Di recente la problematica in esame si è posta con riferimento all’art. 384 c.p., co.I, e alla possibilità di applicare tale esimente al convivente di fatto, non testualmente contemplato nella norma. Le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute nel 2021 a precisare la natura della menzionata disposizione, chiarendo che, come sostenuto dalla dottrina più attenta, si tratta di una causa di esclusione della colpevolezza, di una scusante, cioè, soggettiva, che investe la colpevolezza.  Il dettato del primo comma dell’art.  384 c.p. comporta che la ragione della non punibilità sia da rinvenire nella particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto, tale da rendere inesigibile l’osservanza del comando penale.

Queste caratteristiche, secondo le Sezioni Unite, portano, però, a escludere la valenza eccezionale della norma, come intesa dall’art. 14 delle preleggi, il quale non introduce una deroga alle norme generali e può essere oggetto di applicazione analogica. Infatti, è espressione di principi generali quali il “nemo tenetur se detegere” e quello sancito dal brocardo “ad impossibilia nemo tenetur”, riconducibili a loro volta all’art. 27, I co., Cost., che sancisce il principio di colpevolezza.

Per la Corte, dunque, l’esimente in oggetto costituisce la manifestazione di un principio immanente al sistema penale, cioè quello della inesigibilità di una condotta conforme al diritto in presenza di circostanze particolari, tali da esercitare una forte pressione sulla motivazione dell’agente e di condizionare la sua libertà di autodeterminazione.

La pronuncia ha inevitabilmente ridestato il mai sopito dibattito dottrinale sulla sussistenza del principio di inesigibilità nell’ordinamento e sulla sua operatività in concreto.

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