Il giudicato penale a fronte delle sopravvenienze favorevoli

L’erosione della intangibilità del giudicato penale intesa come immodificabilità del giudizio sul fatto costituente reato e della pena,  è stata inesorabile e costante, poiché la tutela della libertà personale è sentita più forte dell’esigenza di certezza e stabilità del diritto.

È stato a lungo un punto fermo nell’ordinamento italiano, dunque un “mito” creato nel periodo fascista, in quanto posto a tutela di fondamentali ragioni di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici.

Resiste perfettamente di fronte sopravvenienze sfavorevoli, ma cede e non poco se le sopravvenienze sono più miti per l’agente.

A presidio del primo caso sussistono forti garanzie costituzionali, come l’art. 25, II co., Cost, a tenore del quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. L’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile sancisce il principio generale della irretroattività della legge e l’art.2 cp detta una minuziosa disciplina in tema di successione delle leggi penali nel tempo.

Il primo comma della ultima norma citata, infatti, enuncia il principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici, in base al quale la legge non può collegare conseguenze o effetti giuridici sfavorevoli a fatti commessi prima della sua entrata in vigore.

Dunque, il giudicato in questi casi si mantiene granitico a presidio della certezza del diritto e a garanzia del cittadino contro possibili abusi del legislatore.

Tuttavia, l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e le successive modifiche legislative hanno revisionato e ridimensionato l’istituto. Infatti, le riforme degli anni ’80 e 2000 hanno consentito tramite i nuovi artt. 669 e 674 cpp di modificare  le pene già inflitte in numerose ipotesi nonostante il giudicato.

Si è sostenuto in sede giurisprudenziale l’applicazione del principio dell’esecutività della decisione più favorevole, come soluzione del conflitto cosiddetto “pratico” di giudicati, il quale è applicabile in via analogica anche al caso della concorrenza di provvedimenti del Tribunale di Sorveglianza dal contenuto contrastante sul medesimo oggetto e nei confronti della stessa persona. Così come nel caso in cui esso costituisca l’unico strumento possibile per eliminare una delle due ordinanze emesse dal giudice dell’esecuzione per lo stesso fatto contro la stessa persona.

Dunque,  si esegue la sentenza divenuta irrevocabile per prima ex art. 669, 4° co. , o si concede al condannato di esercitare la facoltà d’indicazione della sentenza per lui meno afflittiva,ex art. 669, 2° co.

Viene, cioè,  eseguito il titolo indicato dal condannato/interessato e , solo se rimanga inerte o «non si avvalga di tale facoltà prima della decisione del giudice dell’esecuzione», si applicano i «pratici criteri di opportunità» posti dal 3° co. e dal 4° co.

L’art. 625 bis cpp, invece, disciplina il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto. Il primo tipo di errore, quello cioè meramente materiale, trovava già rimedio nella procedura di correzione regolata dall’art. 130 cpp, alla quale si è ora sovrapposta la disciplina speciale relativa al ricorso straordinario; totalmente innovativo, invece, è il regime apprestato per l’errore di fatto, che ha carattere essenziale e decisivo perché incidente sull’esito del giudizio, per la cui emenda la legge processuale previgente non offriva alcun mezzo di tutela.

L’eliminazione dell’errore di fatto, ossia di quello di tipo meramente percettivo nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, aveva trovato ostacolo nel principio della irrevocabilità e della immodificabilità delle decisioni della Corte di Cassazione, la cui operatività è stata generalmente riconosciuta anche nel vigore del codice del 1988, pur mancando una disposizione analoga a quella dell’art. 552 del codice del 1930, che esplicitamente dichiarava inoppugnabili tutti i provvedimenti emessi dal giudice di legittimità in materia penale.

Il principio della inoppugnabilità dei provvedimenti emessi dalla Cassazione è stato più volte affermato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale ne ha indicato la base giustificativa nell’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, identificata in una delle funzioni fondamentali del processo, cui inerisce la necessità, coessenziale alla giurisdizione, di un accertamento definitivo ed irretrattabile.

 Si è così ritenuto che in questo schema logico si colloca l’ordinario procedimento penale il cui momento terminale, ove siano esperiti i normali mezzi di impugnazione, è costituito dal giudizio e dalla pronunzia della Corte di Cassazione che, per il ruolo di supremo giudice di legittimità ad essa affidato dalla stessa Costituzione ai sensi dell’art. 111, 2° co., Cost., non può soffrire ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso.

È  stato precisato, più recentemente, che il principio della irrevocabilità ed incensurabilità delle decisioni della Corte di Cassazione, oltre ad essere rispondente al fine di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo, il che costituisce, del resto, lo scopo stesso dell’attività giurisdizionale e realizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche, è pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità affidata alla medesima Corte di Cassazione dall’art. 111 Cost.

Con la previsione di un ricorso straordinario per gli errori materiali e di fatto verificatisi nel giudizio di legittimità, l’art. 625 bis ha dato, quindi, attuazione ad un auspicio formulato, da circa un ventennio, dalla Corte Costituzionale ai fini della predisposizione di uno specifico strumento processuale diretto a porre riparo agli errori del giudice di legittimità, in vista della tutela di esigenze di giustizia sostanziale e del diritto ad ottenere un effettivo controllo di legittimità sulla decisione impugnata, demandato appunto alla Corte di Cassazione dall’art. 111 Cost., nonché per evitare irreparabili compromissioni del diritto di difesa ex art. 24 Cost.

 Sorprende, semmai, il ritardo dell’intervento del legislatore, tanto più inspiegabile se si considera che, per il processo civile, la Corte Costituzionale ha da tempo ammesso la possibilità di revocazione per errori di fatto nelle decisioni della Corte di Cassazione e che l’art. 67, L. 26.11.1990, n. 353, ha inserito nel codice di procedura civile l’art. 391 bis, riguardante, appunto, la correzione degli errori materiali e la revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione.

Inoltre, si rileva come con l’art. 625 bis l’ordinamento processuale penale si sia uniformato al principio enunciato dall’art. 4, par. 2, 7° protocollo aggiuntivo, Conv. eur. dir. uomo, ratificata con L. 9.4.1990, n. 98, che prevede la possibilità di riapertura del processo qualora un «vizio fondamentale nella procedura antecedente abbia… potuto condizionare l’esito del caso».

L’art. 671 cpp, infine,  riconosce il beneficio della continuazione con relativa modifica della pena inflitta in sede di esecuzione dopo che più sentenze o decreti pronunciati contro la stessa persona siano diventati irrevocabili. Tale circostanza, a fronte del vantaggio per una celere definizione dei procedimenti, nondimeno risulta chiaramente a discapito di chi, indagato per più fatti-reato, potrebbe rischiare per circostanze meramente occasionali una valutazione “frazionata” della sua posizione e, quindi, un trattamento sanzionatorio all’esito del cumulo materiale. Questo sarebbe ben più pesante di quello cui avrebbe potuto condurre una valutazione globale ed unitaria della sua posizione, di fatto indifferibile ai fini del riconoscimento del vincolo di continuazione tra i diversi reati.

Conseguentemente, il minor spazio dedicato all’accertamento della continuazione in dibattimento, dovuto alla circostanza occasionale che l’imputato venga o no giudicato separatamente sulle varie imputazioni, non sarebbe compensato adeguatamente in altra sede; ne deriverebbe l’illegittimità costituzionale dell’assetto normativo corrispondente.

Per scongiurare questa conseguenza, si ritiene che quel che viene sottratto al giudice dibattimentale deve essere attribuito interamente e senza residui, ad un altro organo, ossia il giudice dell’esecuzione.

Sul versante del diritto sostanziale, la modifica del comma 3 dell’art.2 cp, a proposito della successione delle leggi penali nel tempo ha permesso di elidere ingiuste disparità di trattamento. Infatti, la pena inflitta detentiva si converte automaticamente in pecuniaria, se la legge posteriore dispone in tal senso, derogando al comma 4 che prevede il giudicato come limite alla retroattività della disposizione successiva più favorevole ma non abolitiva.

La progressiva permeabilità del giudicato è stata imposta dalla necessità di offrire protezione a valori costituzionali preminenti come quello della legalità della pena, della libertà personale, del finalismo rieducativo delle pene e della proporzionalità delle stesse.

Il processo di flessibilizzazione del giudicato ha subito un’incisiva accelerazione fino a rivisitare sentenze irrevocabili ammettendo la rideterminazione di pene irrogate in base a disposizioni incostituzionali, perché in alcuni casi configgenti con la CEDU, che incidono sul trattamento sanzionatorio.

Infatti, con la nota sentenza Scoppola, resa dalle SU della Cassazione, è stata rilevata la violazione degli artt. 6 e 7 CEDU, in quanto il ricorrente, a seguito dell’emanazione di una norma incriminatrice, si era visto modificare in senso peggiorativo il trattamento sanzionatorio conseguente alla scelta del rito abbreviato.

La predetta norma peggiorativa è stata poi dichiarata incostituzionale, e la Consulta ha affermato che l’ordinamento giuridico conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato qualora emergano preminenti valori costituzionali, quali la libertà personale.

Le Sezioni Unite avevano  sì riconosciuto la portata valoriale del giudicato, ma l’avevano ritenuta soccombente rispetto ai principi di legalità della pena e di libertà personale, anche in fase esecutiva. Durante l’intero arco della loro durata le restrizioni personali devono, dunque, essere regolate da norme conformi alla Costituzione dovendo assolvere alla funzione rieducativa imposta dall’art. 27, co.III, Cost.. Il condannato ha, cioè, diritto a una pena legittima.

Pertanto , in sede di esecuzione si dovrà dare applicazione all’art. 30 della l.87/53, il quale dispone che le norme dichiarate incostituzionali, di qualsiasi tipologia, dunque anche sanzionatorie, non potranno più essere applicate dal giorno successivo a quello della pubblicazione della decisione. La sentenza irrevocabile pronunciata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale cesserà di essere eseguita insieme ai suoi effetti penali.

Il bilanciamento tra il valore del giudicato e l’esecuzione di una decisione penale successivamente rivelatasi illegittima ha, così, condotto la Corte Costituzionale a ritenere il potere-dovere del giudice dell’esecuzione, quale garante della legalità della sentenza in fase esecutiva, di incidere sul giudicato per scongiurare che un condannato sconti una pena anche solo in parte illegale.

Nel caso Contrada, infatti,  pur essendo esaurito il rapporto giurisdizionale perché la pena era stata interamente scontata, la Corte ha ritenuto di dichiarare l’improduttività degli ulteriori effetti legali.

Ciò in quanto nel caso di specie risultava viziata la piattaforma legale della sentenza di condanna, in quanto basata su norme imprecise, generiche, non conoscibili né, pertanto, prevedibili dall’agente. Il vice questore di Polizia, infatti,  fu condannato per concorso esterno in associazione mafioso in anni in cui la fattispecie, secondo alcuni di matrice giurisprudenziale, era ancora fluida e poco definita. Lo divenne quasi ufficialmente nel 1994 con la famosa sentenza Demitry. Pertanto, si invocò l’applicazione del divieto di retroattività peggiorativa.

Ai fini del nostro tema è utile considerare anche il problema dei rapporti tra giudicato penale e declaratoria di incostituzionalità di norme sanzionatorie ma non incriminatrici.

Un primo indirizzo impone la rideterminazione della pena, applicata in virtù di un’aggravante dichiarata illegittima, sulla base della disciplina generale dettata dall’art.30 l.87/53, dettata appunto per tutte le disposizioni, ivi comprese quelle incidenti solo sul trattamento sanzionatorio, in frizione con la Costituzione.

Un secondo,  invece, in disaccordo con il primo, sostiene che la res iudicata sia un discrimine ragionevole per escludere la rideterminazione della pena e disciplinare in maniera differente situazioni uguali. Il predetto art.30 si applicherebbe solo in caso di abolizione di norme incriminatrici, e comunque sarebbe stato tacitamente abrogato dal più esaustivo art. 673 cpp.

A seguito della caducazione dell’aggravante di clandestinità, ad esempio, le Sezioni Unite hanno vagliato la possibilità di rideterminare la pena in corso di esecuzione sviluppando due argomentazioni. La prima è relativa alla differenza tra abrogazione e dichiarazione di illegittimità, tra un fenomeno fisiologico quale la l’applicabilità di una norma fino a un certo momento, e un evento di patologia normativa.

La seconda  afferisce l’erosione dell’intangibilità del giudicato, la cui concezione assolutistica era espressione di un regime autoritario e della mistica dello Stato forte. Il progressivo ridimensionamento, che si è registrato a livello di giurisprudenza nazionale e sovranazionale, ha dato atto della prevalenza accordata alla inviolabilità della libertà personale, della conformità della pena e della sua legalità anche in fase esecutiva.  È stato affermato come non si possa tollerare che in uno Stato democratico di diritto si assista all’esecuzione di pene non conformi alla Costituzione o alla CEDU. L’esaurimento del rapporto, che determina l’intangibilità del giudicato attiene agli effetti irreversibili perché consumati. Pertanto, la conformità delle pene a legalità è costantemente sub iudice.

Sicchè, i poteri del giudice dell’esecuzione si presentano ampi e oscillano tra chi li ritiene fissi sui binari dei criteri dell’art.133 cp, e chi riconosce ampi spazi di manovra al fine di mantenere il rapporto esecutivo adeguato alla situazione normativa sopravvenuta.

Un’ulteriore questione rilevante al tema sulla tenuta del giudicato penale, riguarda il rapporto tra questo e  l’illegittimità comunitaria della norma incriminatrice applicata.

L’art. 673 cp non contempla espressamente il caso; tuttavia si è concluso per la primazia della norma europea su quella interna, come nel caso della inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento del questore. La Corte di Giustizia europea ha ritenuto la norma in contrasto con la direttiva europea, il cui termine di attuazione è però scaduto invano.

È prevalsa la tesi in base alla quale i fatti non erano più previsti come reato al momento del giudizio, anche se non vi era stata una formale abrogazione del legislatore italiano. Il giudicato penale è stato, dunque, travolto, utilizzando come strumento processuale l’art.673 cp, declinato in una interpretazione estensiva.

Come anticipato, il quarto comma dell’art.2 cp costituisce la regola in base alla quale le leggi solo modificative retroagiscono se più favorevoli, fermo lo sbarramento costituito dal giudicato.

Il secondo comma dell’art.2 cp, invece, disciplina la retroattività della successiva norma penale abolitiva, al cui funzionamento non osta l’eventuale giudicato di condanna intervenuto in applicazione della previsione incriminatrice vigente al momento del fatto.

Costituisce, dunque, l’esempio più fulgido di permeabilità del giudicato.

Solo, quindi, in caso di abolizione di una norma incriminatrice il giudicato viene travolto; in caso di vicende  modificative no. Nella  prima ipotesi cessano anche gli effetti penali della condanna, dovendosi applicare l’art. 673 cpp in forza del quale il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale.

Dunque, il canone della retroattività della legge più mite, quale sopravvenienza favorevole, ha assunto con il tempo sempre più forza anche nei confronti del giudicato. Infatti, se il divieto di retroattività della norma deteriore ha sempre avuto solide basi costituzionali, eurounitarie e internazionali, per il principio di retroattività favorevole si è assistito ad una evoluzione in tema di rango e cogenza.

A livello di fonti internazionale, il principio in parola è stato fondato sull’art. 7 CEDU, il quale sancisce che i cittadini dei Paesi membri non possano essere condannati per un fatto  non previamente previsto come reato dal diritto vigente alla momento della commissione del fatto stesso.  La giurisprudenza della Corte EDU ha poi affermato che il principio della retroattività favorevole fosse incorporato e implicito al primo.

L’art.15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York nel 1966, inoltre, prevede che il colpevole possa beneficiare di una pena più lieve intervenuta dopo la commissione del reato. La Consulta ha affermato la grande importanza del patto di New York, che però non può assumere come parametro nel giudizio di costituzionalità delle leggi; una eventuale contraddizione con lo stesso, perciò, non sarebbe vizio di incostituzionalità.

Sul versante comunitario, infine, l’art.6 del Trattato sull’Unione europea ha più volte affermato  che i diritti fondamentali della Convenzione europea costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Fra questi c’è anche l’applicazione retroattiva della pena più mite.

Nel dibattito nazionale svoltosi al riguardo, una prima fase  ha fatto emergere come l’art. 2 cp, di rango sub costituzionale, non assegni un valore assoluto e inderogabile al diritto alla fruizione di una successiva norma penale più favorevole. Anzi lo ha assoggettato ai limiti del citato comma 4  e delle leggi eccezionali e temporanee.

In questo contesto  l’interpretazione più diffusa ha attribuito al principio in questione un ruolo complementare, quasi ancillare, rispetto alla irretroattività ex art. 25, II co. Cost., certo in sintonia con l’origine storica dello stesso e dell’intonazione complessiva dell’ordinamento penale.

Negli anni più recenti il dibattito si è focalizzato sulla possibilità di rinvenire un fondamento costituzionale al principio di retroattività favorevole, e la giurisprudenza l’ha identificato nell’art. 3 Cost. sul principio di eguaglianza.

Precisamente in due pronunce della Consulta si è escluso che fosse l’art.25, co.2, Cost., volto solo a vietare la retroattività sfavorevole.

Pertanto, stante la differenza ontologica dei due istituti, si è giunti a sostenere che a prescindere dalla circostanza che i fatti siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma abolitrice, il trattamento sanzionatorio debba essere uguale per i medesimi fatti.

Ne consegue, tuttavia, la derogabilità della retroattività favorevole solo di fronte a ipotesi legittime, ragionevoli, poste a presidio di interessi di analogo rilievo.

Infine, a seguito di un’importante pronuncia della Corte Edu la base costituzionale del principio in oggetto si è arricchita della copertura dell’art.7 CEDU, in quanto l’art.117 Cost. impone il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali tra i quali quelli derivanti dalla CEDU appunto.

Ebbene, la Corte EDU ha desunto dal citato art. 7 l’obbligo di applicazione del principio di retroattività favorevole. Anche se l’operazione ermeneutica non è stata compiuta all’unanimità dei consensi, si è evidenziata l’evoluzione della situazione degli Stati contraenti, la quale ha mostrato un approccio più dinamico ed evolutivo della Convenzione, sede di garanzie concrete ed effettive, e non teoriche o illusorie.

L’opinione dissenziente ha, invece, distinto il principio di legalità indispensabile allo Stato di diritto e il principio della legge favorevole, sostenendo che non può essere considerato un prolungamento del primo.

In seguito la Consulta ha stigmatizzato l’effetto innovativo della predetta pronuncia della Corte EDU, affermando che non emerge una siffatta novità, e che subendo deroghe e limitazioni non può essere applicato incondizionatamente come il principio di irretroattività sfavorevole.

Ciò posto ormai è un dato acquisito che oltre ai riferimenti normativi nazionali il principio della legge più mite abbia come punto di riferimento l’art.7 CEDU tramite l’intermediazione dell’art.117 Cost., nei limiti in cui l’avvicendamento delle disposizioni definiscono reati e pene.

La successione meramente modificativa, come argomentato, si dovrà arrestare di fronte al giudicato. Pertanto, non è un principio assoluto e inderogabile al pari della irretroattività della legge penale sfavorevole.

Questa conclusione interpretativa è stata ritenuta, tuttavia, un po’ troppo riduttiva nel dibattito dottrinale italiano. Affermare che la retroattività favorevole abbia una cogenza tendenziale sminuisce il dictum della Corte EDU, la quale in altre statuizioni ha ribadito più chiaramente la forza del principio in oggetto.

Dopo aver dato conto del robusto processo di erosione del principio di intangibilità del giudicato e della crescente potenza del principio di retroattività favorevole, ci si è chiesti se anche una interpretazione più favorevole possa far vacillare il giudicato predetto.

A tal proposito è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 cp nella parte in cui non include anche il mutamento giurisprudenziale. La questione è stata dichiarata infondata, e sono state pronunciate due importanti affermazioni.

La prima attiene al fatto che l’art. 7 CEDU contenga implicitamente il principio di retroattività della legge penale più mite.

La seconda che la nozione europea di “law” incorpora il diritto di produzione legislativa in senso formale,  e quello di formazione giurisprudenziale, nel rispetto dei differenti sistemi giuridici di common law e civil law degli Stati membri.

Tuttavia, la Consulta ha sostenuto che la Corte europea non abbia mai obbligato a rimuovere una sentenza penale di condanna passata in giudicato sulla base di un mutamento giurisprudenziale in senso favorevole.

Dal principio di irretroattività della norma sfavorevole non può ricavarsi l’esigenza “convenzionale” di rimuovere decisioni giudiziali definitive non sintoniche con un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale.

Infine, il principio estraibile dall’art.7 CEDU riguarda le sole leggi penali posteriori e non le sue applicazioni giurisprudenziali.

Non è irragionevole sostenere che il legislatore per porre nel nulla penale una certa condotta già giudicata definitivamente richieda vincolatività, intrinseca stabilità, connotati non posseduti da orientamenti giurisprudenziali suscettibili di continui ripensamenti.

Alla equivalenza della produzione giurisprudenziale a quella normativa osta certamente la riserva di legge e il principio di separazione dei poteri. La creazione delle norme penali e la loro abrogazione deve dipendere da un atto della volontà del legislatore non già da regole giurisprudenziali.

Alla luce di quanto sopra argomentato, appare nitido come la permeabilità del giudicato nel corso degli ultimi trent’anni sia stata direttamente proporzionale all’espansione della cogenza della retroattività della legge più favorevole, e delle sopravvenienze positive in genere.

Il finalismo rieducativo della pena, la legittimità della stessa durante tutto l’arco temporale della sua durata, la libertà personale, sono valori più pregnanti della certezza del diritto posta a base del giudicato. Il nostro sistema di valori si è emancipato rispetto a un’impostazione rigidamente autoritaria e la CEDU, sensibile centro di propulsione in questo senso, talvolta e di recente è stata alquanto timida nel dichiarare lo statuto convenzionale del principio della legge più mite.

Tuttavia, in virtù dei considerevoli valori sottesi da tutelare, l’evoluzione che si prospetta non potrà che essere nel senso di un riconoscimento più deciso e determinato nei suoi contenuti della influenza delle sopravvenienze favorevoli e per simmetria dell’inabissamento del giudicato.

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