L’Assicurazione non è tenuta ad avvisare l’assicurato dell’imminente prescrizione del credito

Nessuna norma e nessun principio del nostro ordinamento impongono al debitore di avvisare il creditore che il suo credito sta per estinguersi per prescrizione, e nemmeno la più lata interpretazione dei concetti di correttezza (artt. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.) può condurre a ritenere che l’assicuratore sia venuto meno a quegli obblighi.

E’ quanto ha affermato la Suprema Corte nella sentenza n. 23069/18.

Il dovere di correttezza è previsto in via generale dall’art. 1175 c.c..

Secondo la relazione al codice civile, l’art. 1175 c.c.:

(a) costituisce un “dovere giuridico qualificato dall’osservanza dei principi di solidarietà”;

(b) ha per oggetto l’obbligo di comportarsi con “lealtà, fermezza, chiarezza e coerenza”;

(e) ha lo scopo di “richiamare nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”;

(d) il contenuto del suddetto dovere va determinato anche con riferimento agli usi .

Tali principi sono stati ritenuti tuttora attuali dalla Suprema Corte, che ha più volte ravvisato nell’art 1175 c.c., una specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 Cost., ed ha chiarito che la suddetta norma impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio (e dunque anche con riferimento alle obbligazioni non contrattuali) il dovere di agire in modo da preservare l’interesse dell’altra ad un adempimento utile, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o legali in tal senso.

Il dovere di correttezza può imporre alle partì anche l’esecuzione di prestazioni non espressamente previste dal contratto, ma è  pur vero che quel dovere non può pretendersi sia illimitato.

I limiti del dovere di correttezza stabiliti dalla Suprema Corte sono tre:

l’interesse proprio, l’accessorietà e lo snaturamento della causa contrattuale.

Il primo limite che incontra il dovere di correttezza sorge quando l’adempimento di esso imporrebbe al soggetto obbligato un apprezzabile sacrificio dei propri diritti o del proprio interesse.

Già la Relazione al codice civile, sopra ricordata, chiarì che l’art. 1175 c.c., impone sì di non ledere l’interesse altrui, ma solo se tale lesione avvenga “fuori dei limiti della legittima tutela dell’interesse proprio”. In applicazione di questo principio, la Suprema Corte ha già stabilito – ad esempio – che in caso di cessione del credito, il ceduto non ha alcun obbligo, una volta vistasi notificare la cessione, di informare il cessionario dell’inesistenza del credito ceduto, non essendo il debitore “obbligato a porre in essere uno specifico comportamento nei confronti del cessionario tale da implicare un aggravamento della sua posizione”.

Il secondo limite del dovere di correttezza è l’accessorietà rispetto all’obbligazione che vincola il debitore al creditore.

L’obbligo di comportarsi con correttezza non è, infatti, un generico dovere di altruismo o di beneficenza, ma costituisce completamento di obbligazioni già esistenti. Dal lato del creditore, infatti, quel dovere ha la funzione di non aggravare inutilmente la prestazione debitoria senza vantaggio proprio, e costituisce applicazione del generale divieto di atti emulativi desumibile dall’art. 833 c.c.; dal lato del debitore, il dovere di correttezza ha lo scopo di garantire al creditore una prestazione che sia per lui utile, e non una prestazione purchessia.

Nell’uno, come nell’altro caso, resta escluso che il dovere di correttezza possa essere invocato per pretendere prestazioni mai pattuite, mai remunerate, e soprattutto del tutto estranee all’oggetto del contratto e del rapporto.

In applicazione di questo principio, la Suprema  Corte ha già stabilito – ad esempio – che non viola il dovere di correttezza il datore di lavoro che non informi i partecipanti ad una selezione di personale sui risultati della stessa, quando tale selezione non aveva carattere vincolante per il datore stesso: e ciò sul presupposto che il dovere di correttezza “ha sempre carattere strumentale e accessorio rispetto ad altra obbligazione di fonte contrattuale o legislativa” .

Il terzo limite del dovere, di correttezza, circoscritto alle obbligazioni negoziali, è rappresentato dallo snaturamento dell’oggetto e della causa contrattuale.

Il dovere di correttezza, per quanto detto, va osservato per garantire al creditore che l’adempimento dell’obbligazione riesca per lui utile ed efficace, ma non può essere invocato per ottenere prestazioni totalmente estranee al programma contrattuale. Chi acquista un immobile, ad esempio, non potrebbe certo pretendere che “per correttezza” il venditore glielo tinteggi, se tale obbligazione non fu pattuita.

In applicazione di questo principio, la Suprema  Corte ha già affermato che il rispetto della regola della correttezza, prescritto dall’art. 1175 c.c., “non comporta che il creditore debba agevolare l’esecuzione della prestazione del debitore o comunque renderla meno onerosa di quella pattuita, ma lo obbliga soltanto a non renderla più disagevole o gravosa di quanto secondo buona fede possa attendersi”.

Sempre in applicazione del medesimo principio, più di recente, si è altresì stabilito che non viola il dovere di correttezza il datore di lavoro il quale non informi il lavoratore del fatto che, restando assente per malattia oltre il periodo di comporto, incorrerà nella risoluzione del rapporto, trattandosi di effetto giuridico previsto direttamente dalla legge; nè quel dovere è violato dall’assicuratore contro i danni che non informi l’assicurato su quali siano i rischi cui è esposta la sua attività, e le misure più opportune per eliminarli.

Dall’applicazione di questi principi al caso in esame deriva che la condotta della Compagnia assicurativa, parte della vicenda giudiziaria, non fu contraria a correttezza, perchè un obbligo a carico dell’assicuratore di informare il contraente dell’imminenza della maturazione del termine di prescrizione del diritto all’indennizzo:

(a) travalica il limite dell’interesse proprio;

(b) non è accessorio rispetto all’obbligo di pagamento dell’indennizzo;

(c) non fa parte del programma contrattuale, e ne snaturerebbe la causa, trasformando l’assicuratore in un mandatario del contraente, quando non addirittura in un negotiorum gestor.

A questi tre argomenti, già stabiliti dalla giurisprudenza pregressa della Suprema Corte, ve n’e’ da aggiungere ora un quarto: “l’argomento del paradosso”.

Se, infatti, si ammettesse che qualunque debitore d’una prestazione contrattuale abbia l’obbligo, scaturente dal dovere di correttezza, di informare il creditore che il suo credito sia sul punto di prescriversi, l’istituto stesso della prescrizione verrebbe di fatto snaturato.

Ed infatti, supposta l’esistenza di quell’obbligo, si perverrebbe al seguente risultato: che ove il debitore lo osservi, ed informi il creditore dell’imminente prescrizione, il creditore verosimilmente la eviterà; se il debitore non lo osservi, ed il credito si prescriva, il debitore sarà obbligato a risarcire un danno pari al credito perduto. Risarcimento oggetto d’un diritto il cui creditore, all’approssimarsi del maturare della prescrizione, avrà diritto di essere avvertito pena il risarcimento del danno, e così via all’infinito.

Nell’uno, come nell’altro caso, dunque, il rapporto obbligatorio mai si esaurirebbe e mai diverrebbe “quesito”: approdo, quest’ultimo, che si porrebbe in contrasto col millenario fondamento dell’istituto della prescrizione, che è quello di dare certezza e stabilità ai rapporti giuridici, ed evitare che lites fiant pane perennes, et vita hominum modum excedant (secondo la celebre definizione della legge Properandum dell’imperatore Giustiniano del 27 marzo 530, in Codex, 3, 1, 13).

In applicazione di questo principio, la Suprema  Corte ha già stabilito – ad esempio – che non viola il dovere di correttezza la lavoratrice in stato interessante che sottaccia al datore di lavoro, al momento dell’assunzione, la propria condizione, e ciò sul presupposto che l’opposta soluzione “finirebbe per rendere inefficace la tutela della lavoratrice madri” .

Secondo, infine, la costante giurisprudenza della  Corte di Cassazione, il dovere di buona fede:

(a) ha natura oggettiva: deve cioè intendersi come obbligo di comportarsi con lealtà e correttezza nell’esecuzione del contratto (e non come ignoranza di ledere l’altrui diritto);

(b) ha una funzione solidale, in attuazione dell’art. 2 Cost..

La buona fede è, in sostanza, la condotta che qualsiasi “persona per bene” avrebbe ragionevolmente tenuto nelle medesime circostanze di tempo e di luogo in cui si sono trovate le parti dello specifico rapporto negoziale.

Sebbene l’ampia formula legislativa non consenta alcuna tassonomia delle condotte di buona fede nell’esecuzione del contratto, la Suprema Corte ha individuato alcune fattispecie che costituiscono figure sintomatiche della buona fede contrattuale, tra cui:

(-) l’obbligo di tollerare gli inadempimenti od i ritardi altrui quando per la loro natura modesta sono insuscettibili di alterare l’equilibrio del sinallagma;

(-) l’obbligo di attivarsi, nei limiti di un apprezzabile sacrificio, per informare la controparte su tutte le circostanze rilevanti dell’affare;

(-) l’obbligo di attivarsi, nei limiti di un apprezzabile sacrificio, per far sì che la controparte riceva una prestazione contrattuale utile;

(-) l’obbligo di astenersi dall’esecuzione di prestazioni contrattualmente pattuite, quando ciò possa pregiudicare l’utilità della controparte.

Da un lato, quindi, anche il dovere di comportarsi secondo buona fede non può far sorgere a carico del debitore obblighi del tutto nuovi e diversi rispetto a quelli contrattualmente assunti; dall’altro anche l’obbligo in esame non può estendersi fino al punto di ricomprendere quello di attivarsi per sopperire alle manchevolezze od alle negligenze della controparte contrattuale .

E proprio con riferimento all’esistenza di termini legali di decadenza da un diritto, la Suprema  Corte ha già affermato che la relativa disciplina non può mai dirsi contraria a buona fede (e non impone pertanto interpretazioni estensive dell’art. 1375 c.c.), quando una delle parti sia soggetta “ad un onere che può essere assolto con la semplice osservanza dell’ordinaria diligenza” .

Alla luce di quanto riportato supra, deve concludersi che varrà anche per il dovere di buona fede quanto già esposto in precedenza con riferimento al dovere di correttezza: e dunque che esso è soggetto ai tre limiti dell’interesse proprio, dell’accessorietà e dello snaturamento della causa contrattuale; che la condotta dell’assicuratore il quale non informi l’assicurato dell’imminente prescrizione dei suoi diritti non è contraria a buona fede, perchè giustificata dai tre limiti suddetti; e che interrompere la prescrizione è un atto rientrante nell’ordinaria diligenza, sicchè chi diligente non fu, non può pretendere di esonerarsi dalle conseguenze delle proprie omissioni riversandone gli effetti sulla controparte contrattuale.

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