I presupposti oggettivi della responsabilità degli enti dipendente da reato, con particolare riferimento alle fattispecie penali colpose

La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica è disciplinata dal d.lgs. n.231/2001.

I criteri di imputazione agli enti della responsabilità per reati commessi dalle persone fisiche negli stessi operanti vengono distinti, secondo la relazione governativa al prefato decreto, in soggettivi, regolati all’art. 6, e in oggettivi, disciplinati all’art. 5.

Sul versante soggettivo, è necessario che la colpevolezza dell’ente sia desunta dalla mancata adozione di modelli organizzativi  e dalla omessa o insufficiente vigilanza sul comportamento dei dipendenti.

Ai sensi dell’art. 5, invece, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione  dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti sopra elencati.

Per gli ultimi soggetti indicati la responsabilità dell’ente scatterà ex art.7, co.1, se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.

Il citato art.5, co.1, dispone, dunque, che venga commesso un cd reato-presupposto, ossia un reato consumato ex artt. 24-25 terdecies, nonché art.10 L.146/2006, o tentato ex art. 26.

Inoltre, il reato deve essere commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Si è discusso se si tratti di parametri ontologicamente distinti o sovrapponibili.

Attualmente la giurisprudenza opta per la tesi dell’alternatività concettuale, in considerazione anche della disgiuntiva “o”. L’interesse descrive una proiezione finalistica della condotta, valutabile ex ante. Il vantaggio evidenzia un risultato concretamente conseguito, accertabile ex post.

Non viene, dunque, condivisa, la tesi che unifica i due concetti.

Delicati problemi di coordinamento si pongono laddove la disciplina non ripete entrambi i concetti, ma fa riferimento al solo interesse, come per esempio al comma 2 dell’art. 5, e all’art. 25 ter.

Emerge, tuttavia, come principale fondamento della responsabilità degli enti proprio il criterio dell’interesse. Infatti, l’ente non risponderà dell’illecito se le persone fisiche hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, ai sensi del secondo comma dell’art. 5. E inoltre, ricorre un’ipotesi di riduzione della sanzione ex art. 12, co.1, lett.a), se l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo. Per converso, se il vantaggio è apprezzabile, rileverà la responsabilità dell’ente.

Dal combinato disposto degli artt. 5 e 25 ter la dottrina ha desunto che vi sia responsabilità dell’ente anche in caso di solo vantaggio. Tuttavia, in giurisprudenza si contesta questo assunto perché si ritiene che il vantaggio da solo violi il principio di personalità ex art. 27 Cost. Dunque, è preferibile intenderlo come mero indice probatorio della sussistenza dell’interesse.

Una particolare ipotesi di conseguimento di un interesse si verifica nel caso di holding societarie. Se la società capogruppo esercita oltre all’attività di controllo e direzione anche quella di impresa in maniera mediata,  scatterà la sua responsabilità per i reati commessi da chi opera per la stessa.

Se parte della dottrina è propensa ad ammettere il concorso di persone nel reato ai sensi dell’art.110 cp, nel caso in cui una società capogruppo determini o istighi una controllata a commettere un reato nell’interesse della prima, altra parte ritiene quella suesposta un’artificiosa ricostruzione.

 Il legislatore non ha predisposto sul tema una disciplina ad hoc, quindi la giurisprudenza prendendo atto della diffusività del fenomeno delle aggregazioni societarie ha ritenuto che non basti un generico riferimento all’interesse di gruppo per fondare la responsabilità di questo. La capogruppo o le controllate saranno chiamate a rispondere dei reati commessi purchè la persona fisica che ha agito lo ha fatto nell’interesse specifico di queste ultime.

Il terzo criterio oggettivo che fonda la responsabilità degli enti riguarda gli apici statutari e i dirigenti di fatto dell’ente stesso, ovvero i soggetti deputati ad esprimere la volontà societaria e la politica di impresa.

Il legislatore ha, dunque, seguito il criterio funzionale, di tipo pragmatico, antielusivo, incentrato non sulla qualifica formale ricoperta, ma sulla funzione concretamente svolta. Pertanto, alla luce della riforma del diritto societario, i membri  del consiglio di sorveglianza, nelle imprese che hanno adottato il sistema dualistico, non rientrano nel novero delle figure apicali predette, in quanto privi di potere gestorio.

Quanto all’ultimo dei presupposti oggettivi della responsabilità degli enti dipendenti da reato, il riferimento ai soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza degli organi apicali è quanto mai opportuno al fine di evitare di traslare verso il basso la detta responsabilità. Di origine statunitense, la disciplina contenuta nella lettera b) del comma 1 dell’art.5 ricomprende non solo i lavoratori subordinati, ma anche quelli esterni alla societas, che eseguono un incarico sotto la direzione o il controllo delle figure apicali.

Si registra in merito come la superiore tesi estensiva sia stata accolta dalla famosa ordinanza Siemens, nella quale è stata riconosciuta la responsabilità alla società Siemens, appunto, per fatti di corruzione commessi da soggetti se pur estranei all’organigramma societario.

Tuttavia, l’art. 25 ter ha delimitato tassativamente  i soggetti posti in posizione apicale, di cui all’art.5, a tre figure , ossia i direttori generali, gli amministratori e i liquidatori. Di conseguenza ha ristretto la cerchia dei soggetti sottoposti di cui alla lettera b) dell’art. 5 a coloro i quali sono subordinati alla vigilanza o alla direzione delle menzionate tre figure.

La disciplina è, infine, completata dall’art. 8, il quale prevede che l’ente non possa giovarsi della non imputabilità dell’autore del reato, dalla mancata identificazione di quest’ultimo, e dalle cause di estinzione del reato diverse dall’amnistia.

Tema molto dibattuto è se e in quali termini la non volizione che caratterizza le fattispecie colpose  dell’art. 25 septies sia  compatibile con la finalizzazione dell’evento all’”interesse” dell’ente. Ambiti d’elezione sono  sicuramente la materia della sicurezza sul lavoro e quella dell’inquinamento.

La tesi prevalente in dottrina valorizza il dato testuale dell’inciso “hanno agito” del comma 2 dell’art.5, nel senso di ricollegare l’interesse o il vantaggio alla condotta dell’agente, quale elemento costituivo del reato. Nelle fattispecie dolose, invece, l’interesse viene posto in relazione al reato; risulta, così, scomposta l’unitarietà della nozione di interesse.

È emerso anche un differente approccio ermeneutico il quale collega la commissione dell’illecito all’interesse, che può essere mediato o immediato, a seconda che il reato venga commesso direttamente nell’interesse dell’ente o in occasione dello svolgimento di un’attività lecita. È questa ad essere funzionale al perseguimento dell’interesse dell’ente.

Il rapporto mediato si manifesterà in relazione ai reati colposi valorizzando l’interesse in senso oggettivo, ossia l’idoneità a procurare una utilità all’ente.

Un’ ulteriore ricostruzione distingue tra colpa cosciente e colpa incosciente, affermando che solo nel primo caso sussisterebbe la compatibilità con l’interesse predetto.

Infatti, se il singolo ignora di tenere una condotta violativa della disciplina cautelare, non si può sostenere che abbia intenzionalmente agito a vantaggio della persona giuridica.

Nel caso di colpa cosciente, ovvero nella consapevolezza di tenere una condotta illecita, imprudente, pericolosa, l’agente non si propone certo di arrecare danno al terzo, quale conseguenza della sua attività; tuttavia, scatta la responsabilità dell’ente se l’interesse che ha mosso l’autore del reato non è stato ad esclusivo vantaggio proprio o di un terzo.

L’interesse dell’ente si ravvisa ogni qual volta la norma violata ha come destinatario l’ente stesso, e non l’agente a titolo personale.

In giurisprudenza, le prime pronunce si mossero concordemente omaggiando il cd principio di conservazione, ovvero l’interprete deve tendere a ricercare e valorizzare il significato utile della disposizione, evitando interpretazioni abrogratrici.

Pertanto, in alcune pronunce è stato posto maggiormente in rilievo il concetto del “vantaggio”, quale criterio oggettivo, accertabile ex post, ossia una reale utilità conseguita. Non sono mancate critiche rivolte alle difficoltà  processuali nel dimostrare il predetto in giudizio.

Altra parte della giurisprudenza, invece, ha ripreso la nozione di “interesse”distinguendola in senso  oggettivo e soggettivo. Secondo la prima tipologia, l’interesse va inteso quale idoneità a produrre utilità all’ente, valutata ex ante, sub specie un risparmio di costi correlato alla mancata adozione delle cautele.

La fattispecie soggettiva, invece, si caratterizza come finalisticamente orientata a procurare un’utilità alla persona giuridica.  La responsabilità dell’ente sussisterà nel caso in cui la condotta dell’agente appaia ex ante idonea a procurare all’ente stesso un vantaggio.

Il finalismo della condotta appare compatibile, quindi, con la non volontarietà delle fattispecie colpose, nelle quali, per esempio, pur non volendo la morte o le lesioni dei lavoratori, consapevolmente sono state violate anche sistematicamente le norme antinfortunistiche per far conseguire alla società un risparmio dei costi di gestione ed un contenimento della spesa per la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Parte della dottrina e della giurisprudenza osserva criticamente che la superiore lettura contrasta con il divieto di analogia in malam partem, in quanto la legge richiede che il reato con tutti i suoi elementi costituivi si realizzi, e non solo la condotta inosservante. Inoltre,  fa leva sul concetto di vantaggio, da valutarsi ex post, il quale soprattutto nei reati colposi sembra essere più evidente rispetto al conseguimento di un interesse a favore della società.

Si è poi distinto in dottrina tra reati di pura condotta e reati di evento. Per i primi basterà la semplice violazione della norma cautelare per fondare la responsabilità dell’ente, a prescindere dalla causazione dell’evento morte o lesioni. E l’interesse in chiave oggettiva verrà riferito alla condotta.

Le Sezioni Unite nel 2014 nel noto caso Thyssengrupp, tuttavia, sposarono la tesi dell’interesse e del vantaggio riferiti alla condotta del reato, ossia alla violazione della norma cautelare, e non all’evento, ossia all’esito giuridico. Hanno ritenuto, infatti, come questa opzione interpretativa sia necessaria per consentire alla norma di trovare applicazione anche nei delitti colposi di evento poiché altrimenti se il vantaggio o l’interesse fossero riferibili anche all’evento morte o lesioni, i suddetti profili non si verificherebbero mai.

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