Azione revocatoria e fallimento

La sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, ha natura costitutiva al di là delle differenze esistenti tra le medesime; ciò in considerazione di un elemento soggettivo di comune accertamento da parte del giudice, quantomeno nella forma della scientia decoctionis.

Essa  modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto.

Non è ammissibile, pertanto, un’azione revocatoria, non solo fallimentare ma neppure ordinaria, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo delle predette azioni.

Il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce soltanto a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura stessa.

Sono questi i principi sanciti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 30416 del 23 novembre 2018 chiamata a pronunciarsi sulla questione dell’inammissibilità dell’azione revocatoria fallimentare od ordinaria rivolta nei confronti di una procedura concorsuale.

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